“Secondo le norme dell’Unione Europea, le imprese devono fornire informazioni veritiere ai consumatori e devono astenersi dall’ingannarli per influenzarne le scelte. Le norme dell’UE sulle pratiche commerciali sleali consentono alle autorità nazionali di controllo di arginare un’ampia gamma di pratiche commerciali sleali.” Così recita parte dell’articolo pubblicato a fine febbraio sul sito della Commissione Europea in cui si parla dell’impegno preso da Zalando, a seguito di un dialogo con la stessa Commissione Europea, a rimuovere le ingannevoli etichette e icone di sostenibilità che compaiono accanto ai prodotti offerti sulla sua piattaforma. Indicazioni che potevano indurre in errore i consumatori riguardo le caratteristiche ambientali dei prodotti. Zalando fornirà, invece, informazioni chiare sui vantaggi ambientali dei prodotti, come la percentuale di materiali riciclati utilizzati.
È solo un caso di studio per introdurre il tema di questo articolo che vorrebbe rendere consapevole la filiera produttiva di scarpe e borse degli importanti cambiamenti in arrivo sul fronte sostenibilità: il Green Deal promosso dall’Unione Europea è in piena attuazione e le aziende devono esserne sempre più consapevoli così da organizzarsi in modo adeguato per risultare conformi alle richieste che giungeranno dai propri clienti, pena una perdita di competitività che potrebbe porle fuori dal mercato.
STATO DELL’ARTE DELLA NORMATIVA EUROPEA
Le normative europee spingono le aziende verso una progettazione eco compatibile, la rendicontazione e il monitoraggio delle catene di approvvigionamento, così da poter fornire informazioni attendibili e misurabili.
Dopo l’entrata in vigore del regolamento sulle catene di fornitura a deforestazione zero (approvato nel 2023), della CSRD e della Green Claims, il 24 aprile scorso il Parlamento Europeo ha licenziato altri due provvedimenti: il regolamento Ecodesign e la direttiva CSDDD. Il regolamento sulle Catene di Approvvigionamento a Deforestazione Zero e la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD) impongono alle aziende un controllo maggiore sulla propria filiera. La più recente CSDDD impone alle grandi aziende (da 1.000 dipendenti e 450 milioni di ricavi in su) di controllare che lungo le loro supply chain non si verifichino pratiche che danneggiano l’ambiente, i lavoratori e le comunità locali.
Le direttive Green Claims e CSRD riguardano, invece, la comunicazione del livello di sostenibilità dei prodotti e dell’impatto delle aziende della moda. Si punta a ridurre le pratiche di greenwashing sostituendo informazioni attendibili o misurabili alle diciture “green” e “sostenibile”, e si consolidano gli obblighi di rendicontazione della sostenibilità.
L’approvato regolamento sull’Ecodesign (ESPR) obbligherà le aziende, entro il 31 dicembre 2030, a progettare i prodotti affinché siano circolari e durevoli, a dotarli di un passaporto digitale che ne tracci i passaggi produttivi e fornisca ai consumatori informazioni per mantenere o riparare il prodotto. Infine, vieterà la distruzione dell’invenduto.
Tutte queste norme prevedono un cambio culturale in senso lato per le aziende: la misurazione del reale impatto dei prodotti basandosi su dati scientifici.
IL DIFFICILE ITER DELLA NORMA CSDDD
Esaminare il complicato iter che ha portato all’approvazione della norma CSDDD ci permette di evidenziare fin da subito pro e contro dell’impianto legislativo.
La direttiva, approvata in seconda lettura a Strasburgo il 24 aprile, ha avuto un iter complesso che ha comportato una riduzione sensibile del suo perimetro di applicazione.
“Grazie alle pressioni della Confindustria italiana e dell’equivalente tedesco, su spinta di Confindustria Moda insieme alle associazioni nazionali di categoria, si è chiesto all’UE di rivedere la norma che inizialmente avrebbe coinvolto tutte le grandi e medie imprese del nostro settore”, racconta Giovanna Ceolini, Presidente di Assocalzaturifici. “La revisione della norma nei tempi e nei modi di attuazione ha evitato una ricaduta devastante su tutta la filiera produttiva della moda”.
Specifica Martina Schiuma, Responsabile d’Impatto presso The ID Factory: “L’Italia si è opposta a queste norme non tanto nel merito, da tutti ritenuto corretto, ma perché non sono misurabili i costi di adeguamento per un’azienda che non ha mai strutturato processi finalizzati a dinamiche di due diligence. Perché gli investimenti che implica non riguardano solo l’auditing dei fornitori, ma la stessa struttura aziendale, a livello di sistemi gestionali, spesso non adeguata. Il tema si complica se si considera che, ad oggi, i sistemi gestionali usati dalle aziende sono tanti, e non condivisi lungo la filiera. In questo contesto specifico sono nate The ID Factory e Ympact, due soluzioni SaaS strutturate per la raccolta dati di filiera estesa e la restituzione di tali dati all’interno dei sistemi gestionali attualmente in uso in ciascuna azienda”.non esistono sistemi tecnologici così avanzati da poter coprire ogni casistica e in poco tempo rendere conformi le aziende alle richieste della normativa”.
Una normativa approvata a seguito di molti compromessi che hanno riguardato in particolare la dimensione aziendale di applicazione. Per quanto la norma, riscritta rispetto a dicembre 2023, riduca di quasi il 50% le aziende coinvolte, in realtà le implicazioni sulle aziende più piccole restano e saranno molto concrete, anche se ad oggi poco percepite.
TUTTE LE AZIENDE SONO COINVOLTE
In questo momento, secondo Ceolini, il tema vero non è chiedersi quali aziende rientrino effettivamente nel perimetro della norma, ma quale sarà l’impatto della norma sulle tante aziende, grandi e piccole, che lavorano per i marchi più in vista. “Nel settore c’è ancora pochissima consapevolezza di quanto queste norme andranno a riverberarsi su tutte le aziende della filiera, le quali saranno obbligate a fornire dati sulla propria attività produttiva”, dichiara Ceolini.
Concorda anche Francesca Rulli, CEO e Founder di Process Factory e 4sustainability®, che motiva il suo punto di vista ampliando il quadro: “L’Europa è il primo continente che tende a Net Zero entro il 2050, quindi pone un’attenzione molto forte al tema della riduzione dell’impatto ambientale.
Semplificando, il complesso normativo del Green Deal riguarda 3 ambiti:
– ECO-DESIGN: che spinge le organizzazioni a progettare in modo diverso il prodotto fin dalla sua ideazione;
– FILIERA: che allarga il dovere di diligenza sulla filiera, per valutare rischi e impatti ambientali e sociali del sistema produttivo;
– PRODOTTO: che porta alla gestione dei dati relativi al prodotto e alla sua modalità di produzione attraverso il Digital Product Passport per dare trasparenza al consumatore e alle logiche di responsabilità estesa o circolarità”.
Secondo Rulli, questo impianto strategico non può che portare tutte le aziende a dover mappare, analizzare e valutare i propri rischi e impatti, e nel caso implementare strategie per limitarli o risolverli: “Quando ci si chiede – continua Rulli – a chi sono applicabili queste norme, la risposta formalmente corretta è ‘solo alle aziende più grandi per il momento’, ma in realtà sono inevitabilmente coinvolti tutti gli anelli a monte della catena, essendo la ratio di tutta la strategia quella del controllo dei sistemi produttivi da una parte e di estensione del ciclo di vita dall’altra”.
E per le piccole o medie imprese è importante che questa consapevolezza si diffonda: la sfida da fronteggiare riguarda una gestione consapevole dei propri dati. È fondamentale che le aziende raccolgano dati con competenza, rispondano ad assessment e sistemi di monitoraggio con approccio scientifico e strutturato, perché quelle informazioni e quei dati determineranno il loro rating, la loro valutazione di impatto. “È essenziale essere consapevoli che i dati che si forniscono sono rilevanti e determinano valutazioni di rischio e di impatto che pesano sul proprio business e su quello dei clienti”, ribadisce Rulli. Da queste considerazioni e dalla collaborazione con centinaia di aziende della filiera moda oltre che di numerosi Brand, è nato il sistema 4sustainability®, che permette di raccogliere i dati di impatto su 6 dimensioni ambientali e sociali allineate alle migliori metodologie di mercato, stimolando l’implementazione di azioni di riduzione del rischio e dell’impatto verificate periodicamente per progettere da green e social washing. Sono migliaia oggi le aziende di filiera presenti nella piattaforma Ympact che esegue il modello 4sustainability, di queste oltre 500 hanno hanno dati verificati e oltre 250 hanno raggiunti livelli di implementazione attestati. Proprio queste filiere, capaci di gestire dati e migliorarli, meglio affrontano le richieste attuali del mercato e, domani, affronteranno le sfide della normativa”.
COSA FARE
Nel 2026 dovranno essere formulati i primi report riguardanti il tracciamento dei rischi di filiera che coinvolgeranno i Tier 1 e 2. Quindi, cosa fare in vista di queste scadenze?
Partiamo dalla metodologia di raccolta dati su cui si basa la normativa, quella proposta dalla OECD – Organization for Economic Co-operation and Development, in cui vengono indicati i 4 passi necessari per esprimere la propria capacità di gestire i rischi:
– mappare i fornitori;
– rilevare i dati utili a valutare il rischio e l’impatto ambientale e sociale;
– porre in atto azioni di mitigazione (correzione di processi, correzioni delle ipotesi di rischio, finanche il ridisegno della propria filiera);
– rendicontare periodicamente. Questa fase è collegata alla normativa sul Reporting di sostenibilità.
“Se queste sono le esigenza è facile capire – sostiene Martina Schiuma – che le aziende dovranno strutturarsi anche dal punto di vista tecnologico poiché il dovere di rendicontazione obbligherà ad abbandonare metodi manuali, poco organizzati e frammentati di raccolta dati, pena l’incapacità di dimostrare la validità delle proprie azioni”.
Non si assisterà, quindi, a una rivoluzione solo sociale e ambientale, ma anche tecnologica, perché se quegli attori che non sono stati in grado di promuovere le proprie attività attraverso i nuovi media online hanno perso i propri clienti, oggi chi non sarà in grado di strutturarsi con una raccolta dati interna e un sistema di analisi e condivisione con i propri clienti corporate, subirà una notevole perdita di competitività, fino a rischiare l’estromissione dal mercato.
Schiuma prosegue con un consiglio molto chiaro: “È importante dotarsi, come azienda o, ancora meglio, come gruppo di aziende di una propria piattaforma di raccolta e analisi dei dati così da poterla gestire al meglio senza ‘subire’ le richieste dei clienti. Chi non sceglie questa strada rischia di trovarsi nella situazione di dover rendicontare su tanti sistemi diversi, il che si trasformerebbe in un costo piuttosto che in un valore aggiunto. Nel momento in cui il racconto delle mie azioni virtuose è a disposizione di tutti senza la necessità di particolari sforzi, ma solo a fronte di una buona organizzazione, si conseguirebbe un potenziale vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti”.
È della stessa idea Lorenzo Saa di Clarity AI: “Bisogna prepararsi a disporre di dati approfonditi, di persone e sistemi in grado di gestirli e fornirli ai propri clienti, tenendo in conto che le richieste potrebbero essere simili nella sostanza, ma differenti nella forma. Bisogna essere pronti a modificare i propri processi nel caso non fossero conformi alle valutazioni di rischio dei clienti”. Vista la complessità del tema Clarity AI sta puntando molto, come il nome stesso lascia immaginare, sull’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale: “Perché pensiamo che sia uno strumento attraverso il quale possiamo portare scala, efficienza e qualità alle informazioni che poi mettiamo a disposizione di investitori, clienti e consumatori. Si pensi che, una volta superato il primo livello di fornitori, ci si ritrova molto rapidamente a dover rendicontare riguardo un’ampia gamma di aziende diverse. Magari situate in paesi al di fuori dell’UE che mettono a disposizione pochissime informazioni, difficili da reperire anche a causa della barriera linguistica e culturale. In questo caso l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale può risultare non solo vincente, ma anche indispensabile”.
Giovanna Ceolini rileva, però, una criticità insita nella normativa: “Il marchio di certificazione della sostenibilità per le aziende calzaturiere VCS – Verified and Certified Steps, che proponiamo come Assocalzaturifici, risponde esattamente alle richieste e alle sollecitazioni di condivisione dei dati e della loro certificazione da parte dei grandi marchi. Ma le aziende calzaturiere hanno un approccio ancora molto tiepido verso il tema della sostenibilità. Il motivo è semplice: tutte le piattaforme oggi disponibili sono un costo che le società faticano ad affrontare. Noi stiamo consigliando le aziende di dotarsi di questi strumenti, ma ci rendiamo conto del sacrificio e delle difficoltà che le imprese devono fronteggiare”.
CRITICITÀ
Quella appena rilevata non è l’unica ombra a pesare sulla nuova legislazione europea.
“È certo importante registrare il coraggio e l’impatto positivo delle regolamentazioni che l’UE sta proponendo; tuttavia, non si possono non rilevare alcune difficoltà legate alla loro messa a terra”, dichiara Saa di Clarity AI. E proseguono: “La mancanza di parametri specifici che indichino quali dati rilevare, con quali modalità e secondo quali criteri valutare il rischio, espongono il settore a incertezza, confusione e relativismo. La catena di fornitura potrebbe trovarsi a fronteggiare una quantità notevole di richieste differenti, tra cui richieste di dati da parte dei propri clienti.
Sarebbe stato utile un maggior approfondimento delle specifiche metodologie da adottare nella raccolta e valutazione dei dati da parte della Commissione Europea o altre autorità”.
Ceolini approfondisce ulteriormente il tema: “Purtroppo quelle varate sono direttive e non regolamenti. Perciò, sarà competenza di ogni Stato applicarle e formulare le proprie leggi a riguardo. Un aspetto molto negativo perché si rende elevato il rischio di disomogeneità all’interno della stessa Unione Europea. Sarà ancor più complesso il panorama in cui ci si troverà ad operare”.
Assocalzaturifici mette sull’avviso rispetto ad altre 3 criticità: “L’obbligo per i grandi brand di dover controllare ed essere responsabili delle filiere potrebbe condurre alla ulteriore crescita del fenomeno delle acquisizioni, già in atto da tempo. Un rischio sistemico, poiché potrebbe impoverire la nostra industria dal punto di vista delle competenze e delle risorse umane.
Un altro tema che stiamo sottoponendo con forza al legislatore riguarda la competizione internazionale. Sarebbe bene che gli obblighi a cui oggi devono sottostare le produzioni europee fossero estesi anche a tutti i prodotti venduti in Europa, altrimenti crescerà ancor più il rischio che il mercato venga ulteriormente falsato da importazioni non conformi, ma molto più competitive”.
Assocalzaturifici rileva, infine, un dato di fatto: “È vero, le aziende devono rendersi maggiormente conto dell’importanza dei temi connessi alla sostenibilità e programmare piani di sviluppo per strutturarsi in tal senso. Al tempo stesso, in questo momento, il tema sostenibilità è molto sentito a monte del prodotto, quindi dai grandi marchi, ma molto meno a valle, dai consumatori. I nostri dati, infatti, raccontano di un consumatore che oggi non riconosce alcun plus ai prodotti sostenibili. Non è vero che chi acquista è disposto a spendere di più per un prodotto sostenibile. Oggi, il mercato è fortemente polarizzato fra chi ancora può permettersi il lusso, che ha comunque perso la sua allure ispirazionale, e chi cerca di acquistare dei buoni prodotti di livello medio ponendo grande attenzione al prezzo”.
CONCLUSIONE
“L’Italia deve vivere questo momento storico come una grande opportunità per mettere a frutto il grande lavoro di filiera compiuto negli scorsi decenni, misurarlo e comunicarlo. Siamo eccellenti in tanti ambiti, dobbiamo diventarlo anche nella gestione del dato”, conclude positivamente Francesca Rulli.
Organizzarsi per essere conformi alle nuove normative può quindi divenire un vantaggio competitivo, nonostante le tante difficoltà messe in luce, ma deve essere fatto al più presto attraverso processi di formazione e di strutturazione aziendale non più rinviabili, oltre che di strumenti strutturati e validati dal mercato, da cui gli utilizzatori trarranno facilmente beneficio.
4SUSTINABILITY
4sustainability.it
È un framework di implementazione innovativo e un marchio registrato che certifica le performance di sostenibilità della catena di fornitura della moda e del lusso.
ASSOCALZATURIFICI
assocalzaturifici.it
Assocalzaturifici è l’Associazione che rappresenta a livello nazionale le imprese a carattere industriale che operano nel settore della produzione delle calzature. Conta circa 500 aziende iscritte.
CLARITY AI
clarity.ai
Azienda tecnologica che si occupa di sostenibilità e che fornisce dati, approfondimenti e strumenti per aiutare gli investitori, le aziende e i consumatori a prendere le loro decisioni attraverso una lente di sostenibilità.
THE ID FACTORY
theidfactory.com
Società impegnata nella promozione di un sistema di tracciabilità innovativo che renda semplice, trasparente e monitorabile il flusso di informazioni e materiali lungo la filiera della moda.The ID Factory è una piattaforma di tracciabilità della filiera (SaaS) che, attraverso la creazione di un passaporto digitale unico, consente alle aziende di moda di ottenere una trasparenza completa della propria filiera globale.